In una nota pubblicata ieri, la FIEG (Federazione Italiana Editori Giornali) ha chiesto all’AGCOM di sospendere Telegram, un servizio di messaggistica istantanea molto utilizzato. La motivazione: la piattaforma, attraverso i propri canali (chat in cui solo gli amministratori possono inviare messaggi), contribuisce alla diffusione illecita delle copie digitali dei giornali. Il comunicato è supportato da un report, che analizza il trend di iscrizioni ai canali e il numero di download effettuati per stimare i mancati introiti degli editori.
La richiesta della FIEG, che è stata accolta con favore anche da alcuni giornalisti, presenta almeno due errori. Il primo è considerare ogni copia pirata scaricata come una copia acquistata in meno. Non è così: nella maggior parte dei casi gli utenti iscritti ai canali sono persone che non comprerebbero comunque il giornale cartaceo, ma approfittano della versione condivisa in pdf per leggerlo.
In secondo luogo, chiedere di chiudere Telegram, semplicemente, non ha senso. Telegram è una piattaforma, utilizzata dalla maggior parte degli iscritti per chattare tra loro e informarsi. Proprio ieri ho ricevuto un messaggio dai gestori del servizio in cui venivo invitato ad unirmi al canale ufficiale del Ministero della Salute per ricevere notizie verificate e autorevoli sul coronavirus, per dire.
Sono gli amministratori dei canali a compiere attività illecite, è loro che bisognerebbe colpire. Come nel caso del pezzotto (il dispositivo che permette di vedere illegalmente i canali TV a pagamento), non è oscurando i server che ospitano i contenuti che si risolve il problema. Chi utilizza questi servizi ha sempre un piano B in caso di chiusura.
Una proposta del genere è miope, è una scorciatoia per provare a risolvere in modo sbrigativo un problema molto complesso e radicato nella società digitale in cui vivamo. Se il proprietario di una catena di supermercati si accorgesse che in uno dei suoi negozi vengono sistematicamente rubati gli ovetti Kinder, sarebbe meglio per lui smettere di venderli oppure investire in sistemi di sorveglianza più accurati? La maggior parte delle persone, probabilmente, sceglierebbe la seconda opzione. Quando si parla di Internet, invece, il ragionamento cambia. Bisogna chiudere, oscurare, bloccare. Ma è un approccio che non ha mai portato risultati: il web è ancora pieno di siti che che offrono gratuitamente film in streaming e portali per il download di contenuti tramite torrent (un protocollo di condivisione di file molto utilizzato, anche per fini leciti). Non è possibile chiudere Internet.
Il filosofo contemporaneo Luciano Floridi, nel suo libro La quarta rivoluzione (Raffaello Cortina Editore, 2017) descrive in maniera efficace la percezione che abbiamo della pirateria online:
Gli oggetti e i processi sono privati della loro connotazione fisica, nel senso che tendono ad essere concepiti indipendentemente dal loro supporto materiale. Dati due oggetti digitali, è impossibile dire quale sia l’originale e quale la copia tramite la sola osservazione delle loro proprietà. Porre minore enfasi sulla natura fisica degli oggetti e dei processi implica il fatto che il diritto di uso sia percepito come tanto importante quanto il diritto di proprietà. […] Chiunque sostenga l’argomento, fondato su una visione storico-materialista, per cui “non ruberemmo mai un CD da un negozio di musica” non ha afferrato la complessità del problema.
Alla luce di questo ragionamento, è più facile comprendere come l’acquisizione illecita di informazioni su Internet sia percepita come meno grave rispetto ad un furto materiale. La società intorno a noi è in continuo mutamento, e con lei dovrebbero cambiare anche le soluzioni che proponiamo per risolvere i problemi.
Allo stesso modo dovrebbe cambiare il mondo dell’editoria, che sta attraversando una crisi profonda da anni. Molti addetti ai lavori parlano di cortocircuito: le persone vogliono informazione di qualità, ma non vogliono pagarla e non vogliono la pubblicità sui siti web. Come se ne esce? Con modelli di business nuovi, con nuove tecniche per fidelizzare i propri lettori, insomma, sfruttando ciò che offre il mondo digitale. Non chiedendo la sospensione di Telegram.
Settimana scorsa Wired ha pubblicato un’inchiesta sul revenge porn su Telegram. Anche in quell’occasione si è alzato il coro che chiedeva a gran voce la chiusura della piattaforma. «Da qualche parte bisognerà pure iniziare!», dice. Certo, ma non da qui.