Trova le differenze

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La Repubblica, uno dei principali quotidiani italiani, apre l’edizione di oggi con questo titolo:

La prima pagina di Repubblica del 6 novembre 2021

Quando l’ho visto ho avuto l’impressione che il “piano per salvare il Natale” non fosse una novità. Se non avessi letto la data, avrei pensato che fosse un titolo dell’autunno scorso, quando eravamo nel pieno della seconda ondata e il Governo discuteva di zone e colori.

Ho fatto una rapida ricerca e ho trovato che, in effetti, Repubblica aveva già aperto l’edizione del 14 novembre 2020 con un titolo molto simile:

A quasi un anno esatto di distanza il giornale usa lo stesso registro linguistico per rivolgersi ai propri lettori e descrivere i piani del Governo. Oggi, però, siamo in una condizione diversa – che personalmente considero meno grave – rispetto al 2020. Ieri in Italia abbiamo registrato 6.764 nuovi casi e 51 decessi. Il 14 novembre 2020, invece, è stato uno dei giorni con in numeri più alti in assoluto dall’inizio della pandemia: contavamo 37.255 nuovi casi e 544 decessi.

Dibattiamo spesso del ruolo dei giornali, che possono influenzare l’opinione pubblica scegliendo che notizie dare, e come darle. In questo caso, trovo che il tono utilizzato nella prima pagina di oggi sia sproporzionato rispetto allo stato attuale della pandemia. I casi stanno crescendo e bisogna senz’altro monitorare la situazione per tenerla sotto controllo. Ma – come hanno già fatto notare in molti – l’efficacia dei vaccini ci aiuta a contenere i casi e le ospedalizzazioni.

Per questo credo che non ci sia nessun Natale “da salvare” e trovo l’uso di questo titolo fuori luogo, oggi. Durante la mia ricerca ho trovato altri due quotidiani che avevano scelto quella espressione nelle loro aperture dell’autunno 2020, Il Giornale e Il Fatto Quotidiano, rispettivamente il 16 novembre e il 25 ottobre.

Le prime pagine del Giornale (16 novembre 2020) e del Fatto Quotidiano (25 ottobre 2020).

Se i truffatori diventano “furbetti”

I furbetti nel titolo di Repubblica

Stamattina il quotidiano la Repubblica, a pagina 12, propone un articolo di Giovanna Vitale che titola così:

«I cinque furbetti di Montecitorio col bonus partita Iva»

La notizia è questa. Cinque deputati hanno richiesto e ottenuto dall’INPS i bonus da 600 euro (poi diventati 1000) introdotti dal Governo come forma di sostegno ai lavoratori autonomi durante i mesi di lockdown. L’articolo specifica anche che i cinque parlamentari non hanno commesso alcun illecito perché, spiega Vitale, «in virtù del lavoro dichiarato, a prescindere dall’incarico parlamentare, avevano tutti i requisiti per richiedere il bonus.»

Ciò che mi interessa di questa vicenda, in realtà, non è tanto il fatto in sé – che a mio avviso rappresenta solo l’ennesimo motivo di sfiducia nei confronti della classe politica – quanto il modo in cui l’evento viene presentato dal giornale.

Una persona che approfitta di una misura di emergenza, pensata per aiutare fasce di lavoratori veramente in difficoltà, non è un furbetto, è un truffatore. Repubblica, descrivendo la notizia in questo modo, veicola un messaggio sbagliato, cioé che chi sfrutta le leggi a proprio vantaggio è furbo, astuto, scaltro. Il fatto che i protagonisti della vicenda siano dei politici è un’aggravante, sarebbe stato altrettanto scorretto se al centro della notizia ci fossero state altre categorie di lavoratori.

La retorica del furbetto non è una novità per il mondo dell’informazione e dei titoli. Nell’immaginario comune è radicata l’espressione “furbetti del cartellino”, per esempio, per indicare dei dipendenti che timbravano e poi non erano presenti sul posto di lavoro. Questo modo di dire è diventato anche una chiave di ricerca sui siti web di diverse testate, per dire. In questo caso non si tratta nemmeno di qualcuno che approfitta delle possibilità offerte da una legge, ma di delinquenti veri e propri, che sono stati perseguiti e processati. Ma che, per molti giornali, restano dei furbetti.

Fare informazione significa, tra le altre cose, proporre le notizie in maniera chiara, aderente alla realtà e in un modo che lasci meno spazio possibile a fraintendimenti. Un evento raccontato in maniera troppo enfatica, sensazionalistica o con le parole sbagliate viene percepito in maniera distorta da chi lo legge. Se chi ruba, chi truffa, chi si comporta male, viene definito “furbetto” e non “ladro”, c’è un problema. In questo modo un comportamento illecito viene ridimensionato e scollegato dalla propria gravità.

Si fa un gran parlare di che cosa serva al mondo dell’informazione per migliorarsi e svolgere bene il proprio ruolo. Scrivere bene un titolo – che in molti casi è l’unica cosa che viene letta – sarebbe già un grande passo avanti.

La settimana più lunga

La settimana più lunga

Abito in un piccolo paesino sugli appennini emiliani, poco distante dal confine con la Toscana. Si chiama Tolè, e durante la seconda guerra mondiale la linea gotica, una linea difensiva costruita dall’esercito tedesco, passava vicino a queste parti. Marzabotto, dove è avvenuto l’eccidio di Monte Sole, dista pochi chilometri da qui. Durante l’ultima fase del conflitto mondiale questo territorio è stato al centro di numerosi scontri tra tedeschi e partigiani.

Mio nonno Cesare è nato nel 1929 e al tempo della guerra era adolescente. Questa è una sua foto del 1943, scattata dopo l’8 settembre. Ricorda molto bene alcuni episodi legati a quegli anni: qualche mese fa gli ho chiesto di raccontarmene uno in particolare, di cui avevo letto su Facebook. Mi aveva colpito perché riguarda un evento che è avvenuto proprio a pochi chilometri da casa mia.

Nonno Cesare nel 1943

Nel giugno 1944 un gruppo di partigiani della Brigata Stella Rossa tese un agguato ad un convoglio di soldati tedeschi, uccidendoli. L’attentato avvenne poco lontano da Montepastore, la località dove mio nonno è cresciuto. Nei giorni successivi i nazisti tornarono sul posto per cercare i loro compagni e effettuarono un rastrellamento che coinvolse oltre 200 civili. Fortunatamente non ci furono vittime, perché i soldati uccisi non vennero ritrovati.

Mappa del territorio

«Fu uno dei periodi più brutti, un piccolo periodo alla fine di giugno del ’44».

Ho raccolto la sua testimonianza in un video e ho deciso di pubblicarlo oggi, che è il 75esimo anniversario della Liberazione d’Italia. Perché la memoria è un bene preziosissimo, ed è compito di ciascuno di noi conservarla e divulgarla. Buon 25 aprile a tutti.

Il coronavirus e la guerra

La retorica dominante con cui proviamo a raccontare la situazione che stiamo vivendo a causa del coronavirus è quella della guerra. Una narrazione che si serve di frasi come “Siamo in guerra contro un nemico invisibile”, “Vinceremo questa battaglia”, “I medici e gli infermieri stanno combattendo per salvarci”.

Ho un’idea differente.

La guerra è un evento circoscritto da due date, una di inizio e una di fine. Oggi, invece, abbiamo forse, una data di inizio (il 31 dicembre 2019, giorno in cui il Governo cinese ha dato il primo allarme all’OMS) e sicuramente nessuna data di fine. Quando l’attuale stato emergenza cesserà dovremo affrontare una lunga fase ritorno alla normalità, un percorso graduale, lento e reversibile, fatto di aperture parziali, possibili nuove chiusure e nuovi decreti. Insomma, un periodo di grande incertezza.

Temiamo il coronavirus perché non sappiamo come raccontarlo. Le fotografie delle città deserte e i grafici che descrivono la progressione dei contagi sono gli unici espedienti che utilizziamo per dare un’immagine e una forma alla portata della pandemia. Per questo ho cercato un punto di vista diverso, che mettesse a confronto la vita alla fine di una guerra e la vita che stiamo vivendo oggi, in isolamento domestico, per capire se sia giusto o meno fare questo paragone.

Ho fatto alcune domande ai miei nonni, Cesare e Maria (91 e 83 anni), che hanno entrambi vissuto la Seconda Guerra Mondiale e, uso le loro parole, mai si sarebbero aspettati di vedere una cosa del genere. Trovate il video qui sotto.

Le riprese sono state effettuate nel rispetto delle prescrizioni sanitarie attualmente in vigore.

Bologna città protetta

Per contenere la diffusione del nuovo coronavirus, il Governo ha disposto misure molto restrittive, che impongono di ridurre al minimo gli spostamenti e di rimanere il più possibile a casa.

Come è cambiata Bologna, adesso che è in zona protetta? Ho fatto un giro per le strade del centro (con le dovute precauzioni sanitarie) per documentare la situazione. Qualche turista, poche macchine, nessuno studente: la città sembra avere capito l’importanza di queste regole. L’atmosfera che percepisco è strana. C’è parecchio silenzio, i principali luoghi di incontro sono quasi deserti. Bologna di solito è una città vivace e rumorosa, vederla così fa uno strano effetto.

Ciò che ho visto è raccolto nel video che trovate qui sotto. Ho preferito non aggiungere musica di sottofondo, ascoltate il rumore di una città in zona protetta. Buona visione, e un piccolo appello: state a casa, rispettate le regole, uscite solo se è davvero necessario. Non sarà per sempre, presto torneremo alla normalità.

Il Google Play Store per contrastare la disinformazione sul Coronavirus

Ieri, mentre navigavo sul Play Store (il negozio di app per gli smartphone Android) ho notato un banner dedicato al nuovo Coronavirus:

Si tratta di una elenco di applicazioni per informarsi sul virus e sulla malattia attraverso fonti autorevoli e verificate, selezionate da Google. La raccolta comprende Medical ID (ICE) (un’app per creare il proprio profilo medico, utile in situazioni di emergenza), Glympse (per condividere in tempo reale la propria posizione, con tutti o con un gruppo scelto di utenti), oltre a Google News e Twitter. Le descrizioni di ciascuna app non sono quelle standard, ma contengono dettagli su funzioni specifiche o consigli per l’utilizzo:

Non è la prima volta che le grandi aziende del web adottano questo genere di misure per contrastare la cattiva informazione. Durante le campagne elettorali Facebook mostra in maniera sempre più trasparente i post sponsorizzati e propone l’elenco dei profili ufficiali dei candidati e degli eletti. Anche in questo caso ha deciso di inserire un banner informativo nel feed, che rimanda al sito web del Ministero della Salute. Stessa scelta da parte di Twitter, che mette in primo piano l’account del Ministero quando si cerca un hashtag relativo al virus.

Credo che i social network, e i giganti del web in generale, si stiano progressivamente rendendo conto delle responsabilità che hanno nella diffusione di contenuti autorevoli e del ruolo centrale che ormai ricoprono come media. Utilizzare un negozio di app come strumento per promuovere notizie verificate è una scelta inedita, che dimostra l’enorme varietà di azioni possibili per contribuire ad una ecologia dell’informazione.