La settimana più lunga

La settimana più lunga

Abito in un piccolo paesino sugli appennini emiliani, poco distante dal confine con la Toscana. Si chiama Tolè, e durante la seconda guerra mondiale la linea gotica, una linea difensiva costruita dall’esercito tedesco, passava vicino a queste parti. Marzabotto, dove è avvenuto l’eccidio di Monte Sole, dista pochi chilometri da qui. Durante l’ultima fase del conflitto mondiale questo territorio è stato al centro di numerosi scontri tra tedeschi e partigiani.

Mio nonno Cesare è nato nel 1929 e al tempo della guerra era adolescente. Questa è una sua foto del 1943, scattata dopo l’8 settembre. Ricorda molto bene alcuni episodi legati a quegli anni: qualche mese fa gli ho chiesto di raccontarmene uno in particolare, di cui avevo letto su Facebook. Mi aveva colpito perché riguarda un evento che è avvenuto proprio a pochi chilometri da casa mia.

Nonno Cesare nel 1943

Nel giugno 1944 un gruppo di partigiani della Brigata Stella Rossa tese un agguato ad un convoglio di soldati tedeschi, uccidendoli. L’attentato avvenne poco lontano da Montepastore, la località dove mio nonno è cresciuto. Nei giorni successivi i nazisti tornarono sul posto per cercare i loro compagni e effettuarono un rastrellamento che coinvolse oltre 200 civili. Fortunatamente non ci furono vittime, perché i soldati uccisi non vennero ritrovati.

Mappa del territorio

«Fu uno dei periodi più brutti, un piccolo periodo alla fine di giugno del ’44».

Ho raccolto la sua testimonianza in un video e ho deciso di pubblicarlo oggi, che è il 75esimo anniversario della Liberazione d’Italia. Perché la memoria è un bene preziosissimo, ed è compito di ciascuno di noi conservarla e divulgarla. Buon 25 aprile a tutti.

Il coronavirus e la guerra

La retorica dominante con cui proviamo a raccontare la situazione che stiamo vivendo a causa del coronavirus è quella della guerra. Una narrazione che si serve di frasi come “Siamo in guerra contro un nemico invisibile”, “Vinceremo questa battaglia”, “I medici e gli infermieri stanno combattendo per salvarci”.

Ho un’idea differente.

La guerra è un evento circoscritto da due date, una di inizio e una di fine. Oggi, invece, abbiamo forse, una data di inizio (il 31 dicembre 2019, giorno in cui il Governo cinese ha dato il primo allarme all’OMS) e sicuramente nessuna data di fine. Quando l’attuale stato emergenza cesserà dovremo affrontare una lunga fase ritorno alla normalità, un percorso graduale, lento e reversibile, fatto di aperture parziali, possibili nuove chiusure e nuovi decreti. Insomma, un periodo di grande incertezza.

Temiamo il coronavirus perché non sappiamo come raccontarlo. Le fotografie delle città deserte e i grafici che descrivono la progressione dei contagi sono gli unici espedienti che utilizziamo per dare un’immagine e una forma alla portata della pandemia. Per questo ho cercato un punto di vista diverso, che mettesse a confronto la vita alla fine di una guerra e la vita che stiamo vivendo oggi, in isolamento domestico, per capire se sia giusto o meno fare questo paragone.

Ho fatto alcune domande ai miei nonni, Cesare e Maria (91 e 83 anni), che hanno entrambi vissuto la Seconda Guerra Mondiale e, uso le loro parole, mai si sarebbero aspettati di vedere una cosa del genere. Trovate il video qui sotto.

Le riprese sono state effettuate nel rispetto delle prescrizioni sanitarie attualmente in vigore.

La gara infinita per stabilire la tragedia più importante

Mi ritrovo a dover parlare, ancora, di Giornata della Memoria. Questa volta in occasione della ricorrenza di oggi, 10 febbraio, il Giorno del Ricordo delle vittime delle foibe e dell’esodo degli istriani. Sento di farlo perché, come ogni anno, questa data assume rilievo mediatico non tanto per la sua importanza storica, ma perché viene usata come termine di paragone nei confronti dell’Olocausto − e di conseguenza della Giornata della Memoria − in una sorta di classifica fra tragedie più importanti di altre.

Trovo queste prese di posizione del tutto senza senso. Così come non condivido l’idea di celebrare una giornata unica, per ricordare insieme entrambe le ricorrenze. La Shoah e il massacro delle foibe sono due tragedie enormi e distinte, e come tali devono essere trattate. In diversi contesti, invece, si tende a rivendicare solo quella a cui si è più legati (perché vicina alle proprie posizioni personali, ma anche per motivi di opportunità politica), ridimensionando l’importanza e la portata dell’altra. Un atteggiamento che, storicamente, ha interessato buona parte dell’opinione pubblica di centro-destra, credo perché, tra le altre motivazioni, l’istituzione del Giorno del Ricordo è piuttosto recente e ha seguito un iter lungo e travagliato (per tre volte fu respinta una proposta di legge a riguardo).

Questa mattina ascoltavo Prima Pagina, storica trasmissione di Radio3 in cui un giornalista prima legge e commenta le notizie dei giornali e poi dialoga con gli ascoltatori in diretta. Ho trovato interessante la telefonata della signora Licia da Roma (la trovate al tempo 1:00:52 del podcast), che spiegava come la maggior parte degli studiosi contemporanei ormai rifiuti il criterio della comparabilità nel valutare l’importanza di un avvenimento storico. In particolare, riguardo alla Shoah, la storiografia tiene ad evidenziare la non comparabilità di questo evento con qualunque altro, per portata, per dimensioni, per conseguenze.

È qui che volevo arrivare con il mio ragionamento. Perché investire così tante energie nel classificare le tragedie? Sarebbe più opportuno dedicare lo stesso tempo all’organizzazione di iniziative per spiegare che cosa è stato il massacro delle foibe e fissare una volta per tutte questo avvenimento nella nostra memoria collettiva. Il 27 gennaio e il 10 febbraio ci servono per ricordare persone, vittime, popoli perseguitati. Per loro osserviamo un minuto di silenzio. Solo allora, per sessanta secondi, la gara infinita si ferma.