La retorica dominante con cui proviamo a raccontare la situazione che stiamo vivendo a causa del coronavirus è quella della guerra. Una narrazione che si serve di frasi come “Siamo in guerra contro un nemico invisibile”, “Vinceremo questa battaglia”, “I medici e gli infermieri stanno combattendo per salvarci”.
Ho un’idea differente.
La guerra è un evento circoscritto da due date, una di inizio e una di fine. Oggi, invece, abbiamo forse, una data di inizio (il 31 dicembre 2019, giorno in cui il Governo cinese ha dato il primo allarme all’OMS) e sicuramente nessuna data di fine. Quando l’attuale stato emergenza cesserà dovremo affrontare una lunga fase ritorno alla normalità, un percorso graduale, lento e reversibile, fatto di aperture parziali, possibili nuove chiusure e nuovi decreti. Insomma, un periodo di grande incertezza.
Temiamo il coronavirus perché non sappiamo come raccontarlo. Le fotografie delle città deserte e i grafici che descrivono la progressione dei contagi sono gli unici espedienti che utilizziamo per dare un’immagine e una forma alla portata della pandemia. Per questo ho cercato un punto di vista diverso, che mettesse a confronto la vita alla fine di una guerra e la vita che stiamo vivendo oggi, in isolamento domestico, per capire se sia giusto o meno fare questo paragone.
Ho fatto alcune domande ai miei nonni, Cesare e Maria (91 e 83 anni), che hanno entrambi vissuto la Seconda Guerra Mondiale e, uso le loro parole, mai si sarebbero aspettati di vedere una cosa del genere. Trovate il video qui sotto.
Le riprese sono state effettuate nel rispetto delle prescrizioni sanitarie attualmente in vigore.