La gara infinita per stabilire la tragedia più importante

Mi ritrovo a dover parlare, ancora, di Giornata della Memoria. Questa volta in occasione della ricorrenza di oggi, 10 febbraio, il Giorno del Ricordo delle vittime delle foibe e dell’esodo degli istriani. Sento di farlo perché, come ogni anno, questa data assume rilievo mediatico non tanto per la sua importanza storica, ma perché viene usata come termine di paragone nei confronti dell’Olocausto − e di conseguenza della Giornata della Memoria − in una sorta di classifica fra tragedie più importanti di altre.

Trovo queste prese di posizione del tutto senza senso. Così come non condivido l’idea di celebrare una giornata unica, per ricordare insieme entrambe le ricorrenze. La Shoah e il massacro delle foibe sono due tragedie enormi e distinte, e come tali devono essere trattate. In diversi contesti, invece, si tende a rivendicare solo quella a cui si è più legati (perché vicina alle proprie posizioni personali, ma anche per motivi di opportunità politica), ridimensionando l’importanza e la portata dell’altra. Un atteggiamento che, storicamente, ha interessato buona parte dell’opinione pubblica di centro-destra, credo perché, tra le altre motivazioni, l’istituzione del Giorno del Ricordo è piuttosto recente e ha seguito un iter lungo e travagliato (per tre volte fu respinta una proposta di legge a riguardo).

Questa mattina ascoltavo Prima Pagina, storica trasmissione di Radio3 in cui un giornalista prima legge e commenta le notizie dei giornali e poi dialoga con gli ascoltatori in diretta. Ho trovato interessante la telefonata della signora Licia da Roma (la trovate al tempo 1:00:52 del podcast), che spiegava come la maggior parte degli studiosi contemporanei ormai rifiuti il criterio della comparabilità nel valutare l’importanza di un avvenimento storico. In particolare, riguardo alla Shoah, la storiografia tiene ad evidenziare la non comparabilità di questo evento con qualunque altro, per portata, per dimensioni, per conseguenze.

È qui che volevo arrivare con il mio ragionamento. Perché investire così tante energie nel classificare le tragedie? Sarebbe più opportuno dedicare lo stesso tempo all’organizzazione di iniziative per spiegare che cosa è stato il massacro delle foibe e fissare una volta per tutte questo avvenimento nella nostra memoria collettiva. Il 27 gennaio e il 10 febbraio ci servono per ricordare persone, vittime, popoli perseguitati. Per loro osserviamo un minuto di silenzio. Solo allora, per sessanta secondi, la gara infinita si ferma.

La retorica scivolosa

Lunedì scorso è stato il Giorno della Memoria. Complice l’esito delle elezioni regionali in Emilia-Romagna e in Calabria, che ha monopolizzato l’attenzione dei media, ho avuto l’impressione che se ne sia parlato meno del solito. È da parecchi anni che la ricorrenza del 27 gennaio pare essersi un po’ svuotata del proprio significato: i giornali le dedicano l’articolo del giorno nelle loro pagine culturali e pubblicano la foto dell’ingresso del campo di concentramento di Auschwitz sulle proprie home page, i talk show televisivi difficilmente decidono di dare spazio a questo tema e i personaggi pubblici, ad eccezione del Presidente della Repubblica che ha tenuto un bellissimo discorso, rilasciano poche dichiarazioni.

In realtà, a ben guardare, il Giorno della Memoria viene celebrato in molti contesti, dalle scuole alle librerie alle associazioni culturali. Quella che si è indebolita, secondo me, è la consapevolezza del perché sia così importante ricordare l’Olocausto. Pensavo, quindi, di parlare di questo. Ma mentre mettevo in ordine le idee prima di scriverle, mi sono reso conto di quanto sia difficile ricordare la Shoah senza scivolare in considerazioni banali, in commenti carichi di retorica o in riflessioni già sentite. “La pagina più nera della nostra storia”, “un orrore che non deve ripetersi”: spesso non si va più in là di così.

In passato ho avuto due volte l’occasione di ascoltare dal vivo le parole di un sopravvissuto ai campi di sterminio. La prima è stata alle elementari, venne a scuola un uomo di nome Attilio, uno dei tanti prigionieri politici con il triangolo rosso cucito sulla casacca, ci raccontò la sua storia e rispose alle nostre domande. La seconda, invece, l’anno scorso: ho avuto il privilegio di ascoltare dal vivo, al Teatro alla Scala di Milano, le parole di Liliana Segre, unica sopravvissuta ad Auschwitz della propria famiglia e ora senatrice a vita. Un’esperienza fortissima e impossibile da dimenticare. Più di recente ho letto la storia di Savina Rupel, raccontata su Twitter da Johannes Bückler (che vi consiglio di seguire).

Il sentimento antisemita è ancora presente in alcune pieghe della nostra società, e sempre più spesso leggiamo notizie che lo dimostrano. Il vero motivo per cui serve ancora il Giorno della Memoria, secondo me, sta tutto qui. Per ricordarci che alle leggi razziali e alla discriminazione di massa ci si arriva poco per volta, con il silenzio e con l’indifferenza. Meditate che questo è stato, scriveva Primo Levi in una delle sue opere più citate. Leggete le testimonianze di chi questo lo ha vissuto, aggiungo io. Andate ad ascoltarle dal vivo, se potete. Perché un giorno non molto lontano queste persone non ci saranno più, e toccherà a noi tenere vive le loro storie. Facendo attenzione a non scivolare.

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