Se pensate di non avere niente da dire

La malattia causata dal nuovo Coronavirus (COVID-19) è, alla fine, arrivata anche in Italia. Non parlo dei pazienti cinesi ricoverati a Roma già da diverse settimane, ma dei primi casi di contagio locale. Nel momento in cui sto scrivendo i numeri parlano di 232 ammalati, 7 morti e un paziente guarito.

A giudicare dalle reazioni di alcuni giornali e di qualche giornalista, sembrerebbe che una parte del mondo dell’informazione italiana non vedesse l’ora che la malattia colpisse anche il nostro Paese. L’Organizzazione Mondiale della Sanità, in un report di inizio febbraio, aveva espresso le proprie preoccupazioni sul rischio di infodemia collegato alla diffusione del nuovo Coronavirus:

The 2019-nCoV outbreak and response has been accompanied by a massive ‘infodemic’ -an over-abundance of information – some accurate and some not – that makes it hard for people to find trustworthy sources and reliable guidance when they need it.

Ciononostante, la ricerca ossessiva di visibilità, attenzione e click non si è arrestata, anzi. Politici e giornali sfruttano la paura del virus per rafforzare la propria propaganda sulle frontiere da chiudere; opinionisti che fino all’altro ieri si occupavano del Festival di Sanremo oggi distribuiscono tweet come se fossero virologi affermati; scienziati dell’ultima ora pubblicano ricette per la preparazione di disinfettanti fai da te. Siamo alle solite, direte voi. Che la disinformazione ormai è una costante nella nostra società, che è normale nell’era della verità post fattuale non riuscire più a distinguere una notizia verificata da una bufala.

Sì, avete ragione, viviamo in tempi complessi dove è difficile orientarsi. Ma permettetemi di aggiungere qualche considerazione. Visto che le notizie false e la cattiva informazione sono apparentemente incontrollabili, quello che possiamo fare è cercare di veicolare il più possibile le notizie vere, attendibili. Ci sono tanti media che lo fanno già (Valigia Blu ha raggruppato tutte le notizie sul nuovo Coronavirus in una pagina, il Post ha creato una newsletter gratuita sul tema). Condividere il loro lavoro è già un ottimo modo per contenere l’infodemia. Anche indignarsi per i titoli di qualche giornale non serve a granché. Siamo d’accordo sul fatto che sia una scelta di pessimo gusto − e non è nemmeno la prima volta che succede − ma in questo caso la soluzione migliore è non comprare quel giornale, preferendo piuttosto testate che hanno deciso di rimuovere le pubblicità sugli articoli relativi al virus, come La Stampa.

Infine, e vi sembrerà banale, potete sempre scegliere di fare silenzio e limitarvi ad ascoltare. Ci sono tanti professionisti qualificati con qualcosa da dire (trovate i loro account Twitter elencati in questa lista): leggete i loro articoli, interagite con loro e sviluppate il vostro pensiero critico a partire dalle loro opinioni. E se pensate di non avere niente da dire, non dite niente.

È importante continuare a parlare di Patrick George Zaki

Patrick George Zaki

La mattina di venerdì 7 febbraio Patrick George Zaki, un ricercatore egiziano che studiava all’Università di Bologna, è stato arrestato all’aeroporto del Cairo dopo essere rientrato nel suo Paese d’origine per fare visita ai familiari. La notizia è stata diffusa dall’EIPR, l’Iniziativa Egiziana per i diritti personali, dove Zaki si occupava di diritti umani e di genere. Secondo le informazioni riportate da Amnesty International, che collabora con l’EIPR, il ragazzo sarebbe stato interrogato e torturato per motivi politici, in quanto oppositore del regime di Al Sisi. Nel momento in cui sto scrivendo questo articolo Zaki si trova in stato di detenzione preventiva e ci rimarrà per almeno 15 giorni. Potete approfondire l’intera vicenda leggendo questo articolo o guardando questo video.

Il motivo per cui sto parlando non è soltanto per darvi notizia di ciò che è accaduto, ma per contribuire − per il poco che posso − a continuare a diffondere informazioni su questo avvenimento. Non abbiamo la certezza che l’arresto di Zaki c’entri qualcosa con il caso di Giulio Regeni, il ricercatore italiano rapito e ucciso in Egitto nel 2016, ma è molto probabile, viste le ostilità del Governo egiziano nei confronti di qualunque tipo di attivista politico. Sempre l’EIPR sostiene che da ottobre 2019 sei membri del proprio staff siano stati arrestati e interrogati nell’ambito di di un’operazione di contrasto ai nemici del regime.

È importante continuare a parlare di Patrick Zaki perché il Governo italiano non lo sta facendo. Come per il caso Regeni, di cui a distanza di quattro anni e tre esecutivi non si conosce ancora la verità, ho l’impressione che anche stavolta la politica preferisca mantenere un profilo basso, per non compromettere i rapporti economici e commerciali tra l’Italia e l’Egitto. Lo considero un atteggiamento sbagliato, ma ne comprendo le motivazioni. Per questo che credo che siano i media i primi a dovere dare maggiore rilevanza e copertura alla vicenda, affiché grazie al loro lavoro l’opinione pubblica acquisisca più consapevolezza e pretenda giustizia. Solo allora interverrà la politica, che a quel punto non potrà più sottrarsi dalle proprie responsabilità e, anzi, farà a gara per intestarsi un eventuale successo nella risoluzione del caso. Non è un bello scenario da descrivere, ma funziona sempre così.

A Giulio Regeni non è bastata la morte per avere giustizia e forse non sapremo mai che cosa gli sia veramente accaduto. Patrick Zaki è ancora vivo, non lasciamo che la sua storia venga dimenticata dalle persone e, di conseguenza, dalla politica.

La gara infinita per stabilire la tragedia più importante

Mi ritrovo a dover parlare, ancora, di Giornata della Memoria. Questa volta in occasione della ricorrenza di oggi, 10 febbraio, il Giorno del Ricordo delle vittime delle foibe e dell’esodo degli istriani. Sento di farlo perché, come ogni anno, questa data assume rilievo mediatico non tanto per la sua importanza storica, ma perché viene usata come termine di paragone nei confronti dell’Olocausto − e di conseguenza della Giornata della Memoria − in una sorta di classifica fra tragedie più importanti di altre.

Trovo queste prese di posizione del tutto senza senso. Così come non condivido l’idea di celebrare una giornata unica, per ricordare insieme entrambe le ricorrenze. La Shoah e il massacro delle foibe sono due tragedie enormi e distinte, e come tali devono essere trattate. In diversi contesti, invece, si tende a rivendicare solo quella a cui si è più legati (perché vicina alle proprie posizioni personali, ma anche per motivi di opportunità politica), ridimensionando l’importanza e la portata dell’altra. Un atteggiamento che, storicamente, ha interessato buona parte dell’opinione pubblica di centro-destra, credo perché, tra le altre motivazioni, l’istituzione del Giorno del Ricordo è piuttosto recente e ha seguito un iter lungo e travagliato (per tre volte fu respinta una proposta di legge a riguardo).

Questa mattina ascoltavo Prima Pagina, storica trasmissione di Radio3 in cui un giornalista prima legge e commenta le notizie dei giornali e poi dialoga con gli ascoltatori in diretta. Ho trovato interessante la telefonata della signora Licia da Roma (la trovate al tempo 1:00:52 del podcast), che spiegava come la maggior parte degli studiosi contemporanei ormai rifiuti il criterio della comparabilità nel valutare l’importanza di un avvenimento storico. In particolare, riguardo alla Shoah, la storiografia tiene ad evidenziare la non comparabilità di questo evento con qualunque altro, per portata, per dimensioni, per conseguenze.

È qui che volevo arrivare con il mio ragionamento. Perché investire così tante energie nel classificare le tragedie? Sarebbe più opportuno dedicare lo stesso tempo all’organizzazione di iniziative per spiegare che cosa è stato il massacro delle foibe e fissare una volta per tutte questo avvenimento nella nostra memoria collettiva. Il 27 gennaio e il 10 febbraio ci servono per ricordare persone, vittime, popoli perseguitati. Per loro osserviamo un minuto di silenzio. Solo allora, per sessanta secondi, la gara infinita si ferma.

Precario a chi?

La notizia dell’isolamento del nuovo coronavirus da parte del laboratorio di Virologia dell’Istituto Nazionale Malattie Infettive “Lazzaro Spallanzani” ha riaperto il dibattito sui lavoratori precari in Italia. Il gruppo di lavoro che ha ottenuto questo risultato è composto da tre dottoresse: Maria Rosaria Capobianchi (67 anni, capo del laboratorio), Concetta Castilletti (57 anni, responsabile dell’Unità virus emergenti) e Francesca Colavita (31 anni, ricercatrice).

La condizione professionale di Colavita ha scatenato i titolisti di diversi giornali, che l’hanno subito definita “precaria“. In realtà la ricercatrice lavora già da quattro anni allo Spallanzani, ha un contratto fino a novembre 2021 e per quel posto di lavoro a Roma ha rinunciato ad un ruolo a tempo indeterminato nella sua città natale, Campobasso.

In Italia l’idea del posto fisso è ancora una suggestione molto forte per tantissime persone, non solo adulte, che vedono in un contratto a tempo indeterminato lo strumento per potere, finalmente, programmare a lungo termine la propria vita, grazie alla maggiore facilità di accesso al credito che questo tipo di contratto garantisce. Un fenomeno che spiega l’enfasi riservata alla situazione di Colavita, descritta come una professionista che rischia di perdere il proprio lavoro da un giorno all’altro. Personalmente lo trovo un errore. Un contratto a termine non si può definire “precario”, soprattutto se il termine è lontano anni. Un ricercatore che svolge la propria professione dopo avere vinto una borsa di studio non è affatto precario, perché conosce benissimo i dettagli e le scadenze del proprio contratto. Senza parlare delle tutele incluse in ogni contratto di lavoro subordinato: ferie, malattia, TFR, tredicesima. Tutti benefici extra, che è giusto (e obbligatorio) garantire, ma che spesso vengono dati per scontati e privati del loro valore, anche economico.

I rapporto di lavoro che non offrono sicurezze esistono, ma sono altri. Se penso alla mia esperienza professionale, fino ad oggi ho lavorato quasi esclusivamente con contratti di stage (500€ al mese, niente contributi e nessuna delle garanzie elencate sopra) oppure come lavoratore autonomo (ho la partita IVA dal 2014). In questi casi sì che c’è da sentirsi precario: riponi grandi speranze nell’esperienza professionale che stai svolgendo e ti impegni per convincere l’azienda ad assumerti al termine del periodo di tirocinio, ma i datori di lavoro sanno già che questo, con ogni probabilità, non accadrà. Alle imprese, dal punto di vista fiscale, conviene di più cambiare stagista ogni sei mesi piuttosto che confermarne uno. Una scelta che ha ricadute negative sull’ambiente di lavoro, perché mette i capi nella condizione di dovere formare in continuazione una risorsa diversa, che una volta inserita nelle dinamiche dell’ufficio è già in scadenza di contratto.

Anche i rapporti di lavoro regolati dalla partita IVA sono tutt’altro che stabili. Spesso sono le aziende stesse a richiedere ai candidati di aprirla, per evitare i costi di assunzione. È altrettanto frequente il caso di professionisti che emettono fatture ad un solo cliente nel corso dell’anno, un segnale evidente che c’è qualcosa di sbagliato nel loro trattamento professionale. In tutti questi casi i giornali dovrebbero parlare di precariato, approfondire, informare e chiedere ai decisori politici di intervenire.

Si potrebbe poi discutere di qual è la definizione che vogliamo dare alla parola lavoro nel 2020, in piena rivoluzione digitale e con una società sempre più globale e connessa. Ha ancora senso rimanere ancorati al concetto di posto fisso e di contratto a tempo indeterminato?

Un mio caro amico, che lavora come insegnante di sostegno in una scuola dell’infanzia, percepisce circa 1500€ al mese, per un impegno di 25 ore settimanali. Ha un incarico che dura per l’intero anno scolastico (con concrete possibilità di rinnovo) e gode di tutte le tutele sociali esistenti. Per molti media, è un precario anche lui.

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La retorica scivolosa

Lunedì scorso è stato il Giorno della Memoria. Complice l’esito delle elezioni regionali in Emilia-Romagna e in Calabria, che ha monopolizzato l’attenzione dei media, ho avuto l’impressione che se ne sia parlato meno del solito. È da parecchi anni che la ricorrenza del 27 gennaio pare essersi un po’ svuotata del proprio significato: i giornali le dedicano l’articolo del giorno nelle loro pagine culturali e pubblicano la foto dell’ingresso del campo di concentramento di Auschwitz sulle proprie home page, i talk show televisivi difficilmente decidono di dare spazio a questo tema e i personaggi pubblici, ad eccezione del Presidente della Repubblica che ha tenuto un bellissimo discorso, rilasciano poche dichiarazioni.

In realtà, a ben guardare, il Giorno della Memoria viene celebrato in molti contesti, dalle scuole alle librerie alle associazioni culturali. Quella che si è indebolita, secondo me, è la consapevolezza del perché sia così importante ricordare l’Olocausto. Pensavo, quindi, di parlare di questo. Ma mentre mettevo in ordine le idee prima di scriverle, mi sono reso conto di quanto sia difficile ricordare la Shoah senza scivolare in considerazioni banali, in commenti carichi di retorica o in riflessioni già sentite. “La pagina più nera della nostra storia”, “un orrore che non deve ripetersi”: spesso non si va più in là di così.

In passato ho avuto due volte l’occasione di ascoltare dal vivo le parole di un sopravvissuto ai campi di sterminio. La prima è stata alle elementari, venne a scuola un uomo di nome Attilio, uno dei tanti prigionieri politici con il triangolo rosso cucito sulla casacca, ci raccontò la sua storia e rispose alle nostre domande. La seconda, invece, l’anno scorso: ho avuto il privilegio di ascoltare dal vivo, al Teatro alla Scala di Milano, le parole di Liliana Segre, unica sopravvissuta ad Auschwitz della propria famiglia e ora senatrice a vita. Un’esperienza fortissima e impossibile da dimenticare. Più di recente ho letto la storia di Savina Rupel, raccontata su Twitter da Johannes Bückler (che vi consiglio di seguire).

Il sentimento antisemita è ancora presente in alcune pieghe della nostra società, e sempre più spesso leggiamo notizie che lo dimostrano. Il vero motivo per cui serve ancora il Giorno della Memoria, secondo me, sta tutto qui. Per ricordarci che alle leggi razziali e alla discriminazione di massa ci si arriva poco per volta, con il silenzio e con l’indifferenza. Meditate che questo è stato, scriveva Primo Levi in una delle sue opere più citate. Leggete le testimonianze di chi questo lo ha vissuto, aggiungo io. Andate ad ascoltarle dal vivo, se potete. Perché un giorno non molto lontano queste persone non ci saranno più, e toccherà a noi tenere vive le loro storie. Facendo attenzione a non scivolare.

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