Basta una foto scattata bene

Lunedì è iniziata la fase due, quella che il premier Conte ha definito “di convivenza con il virus”. Accompagnata dal consueto DPCM, allenta solo di poco le restrizioni in vigore fino alla scorsa settimana e fissa al 18 maggio la data per nuove disposizioni.

La fase due è stata presentata come momento di ripartenza e graduale riapertura. Questa scelta comunicativa ha generato una involontaria sensazione di “liberi tutti” in molte persone, persuase che sia sufficiente indossare la mascherina e rispettare le regole distanziamento fisico per non entrare in contatto con il virus. Queste precauzioni sono senz’altro utili e dovranno diventare parte della nostra quotidianità d’ora in poi, ma non bastano per fermare la diffusione del COVID-19.

L’epidemia si contiene facendo più test possibili (l’OMS ha dato questa raccomandazione quasi due mesi fa), utilizzando il contact tracing per monitorare i contagi e, di conseguenza, insolando in tempo i casi positivi. Le limitazioni alle libertà di movimento sono una soluzione successiva, da adottare solo in momenti di emergenza, come i due mesi appena trascorsi.

Tuttavia, la confusione con cui si è espresso il Governo su che cosa possiamo e non possiamo fare in questa seconda fase ha finito per polarizzare le opinioni e le scelte dei cittadini, comprensibilmente provati da sessanta giorni di reclusione in casa. Si distinguono due fazioni: da un lato i “fedeli al DPCM”, quelli che continuano a non uscire e initimano ai passanti di restare a casa, dall’altro “gli immuni”, che vogliono ritornare al più presto a socializzare forti del fatto che sanno di essere sani. La spaccatura tra i due schieramenti è amplificata da una certa parte di giornalismo, a cui fanno comodo le posizioni nette per avere più presa su potenziali lettori. È il caso di immagini come questa:

La folla in questo video ha suscitato l’indignazione di molti, ma l’assembramento è in buona parte una illusione, causata dal teleobiettivo che schiaccia la prospettiva. Le distanze reali sono evidenziate in questo tweet Luca Bianchetti:

Ora, è evidente che evitare assembramenti sia fondamentale per contenere il contagio, così come è di primaria importanza che per le strade vi siano controlli rigorosi, che in questo caso specifico non ci sono stati. Ma costruire discussioni strumentali come questa è utile soltanto a fomentare la polarizzazione delle opinioni e a inasprire ancora di più il clima, già pesante, che si respira in questo periodo.

Tutti abbiamo voglia di disporre nuovamente delle nostre libertà e delle nostre abitudini. Ed è giusto che, nei limiti delle misure di sicurezza sanitarie, poco a poco iniziamo a riappropriarci delle nostre città. Il Governo dovrebbe esserci d’aiuto in questo, con campagne di test massicce su tutta la popolazione, con l’utilizzo di una app di tracciamento fatta bene (avete notato che nessuno parla più di Immuni?) e spiegando chiaramente in che modo ci è consentito incontrare altre persone. Mettendoci nella condizione, insomma, di potere uscire senza essere accusati di essere untori o irresponsabili.

Ps.
Proprio mentre sto scrivendo questo post, il Sindaco di Milano Beppe Sala ha pubblicato un video sui suoi social in cui minaccia di chiudere i Navigli se la situazione non dovesse cambiare:

L’ottimismo che non serve

Stiamo incominciando a prendere confidenza con questo stile di vita. Le misure restrittive adottate dal Governo per contrastare l’espansione del coronavirus sono in vigore ormai da una settimana e le nostre giornate si stanno lentamente abituando ai flashmob dai balconi, alle dirette su Instagram, alle videochiamate con gli amici e in generale alla grande quantità di contenuti pubblicati sui social network dalle nostre case. In questo enorme flusso di post, uno dei trend maggiormente diffusi e condivisi è l’hashtag #andràtuttobene, che spopola un po’ ovunque.

La popolarità di questo slogan è descritta bene dal grafico qui sopra, che evidenzia la frequenza con cui è stato cercato su Google negli ultimi sette giorni. Un messaggio semplice, positivo, presente nei disegni di tanti bambini e adottato anche da alcune istituzioni, come il profilo Twitter della Polizia di Stato:

Apprezzo l’ottimismo, di solito lo trovo un buon modo per affrontare i problemi, ma credo che in questa circostanza sia fuori luogo. Stiamo attraversando il momento storico più delicato dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Siamo costretti (giustamente, si intende) a rinunciare a parte delle nostre libertà personali per combattere un virus che rischia di fare collassare il nostro sistema sanitario oggi e la nostra economia domani. Chi ha il tremendo compito di decidere che cosa possiamo e non possiamo fare lavora e scrive decreti per mantenere l’Italia in equilibrio tra questi due scenari, cercando di non farci precipitare né da una parte né dall’altra. Ma un prezzo da pagare ci sarà, e sarà molto alto.

Quando tutto questo finirà (e già soltanto pensare a quando è un esercizio difficile), decine di aziende avranno chiuso e altrettante saranno sull’orlo del fallimento. Le misure varate ieri attraverso il decreto Cura Italia puntano a contenere gli effetti negativi ma inevitabili causati dalla chiusura totale di questo mese. 25 miliardi − quasi quanto un’intera Legge finanziaria − per potenziare il SSN e dare ossigeno a famiglie e imprenditori. La Commissione Europea, oltre a garantire agli Stati ampia libertà di manovra in questa fase, sta studiando come intervenire in maniera diretta per sostenere le economie dei Paesi membri e metterà a disposizione ulteriore liquidità, che probabilmente verrà prelevata dai fondi di coesione FSE e FESR.

Un’analisi di Cerved quantifica tra i 270 e i 650 miliardi le potenziali perdite per le imprese italiane e calcola un indice di fallimento fino al 10% se l’emergenza non dovesse arrestarsi entro l’anno. Prospettive che nulla hanno a che vedere con la frase “andrà tutto bene”.

C’è un altro aspetto che mi porta a non condividere questo slogan.
Ho la fortuna, per il momento, di non conoscere personalmente nessuno che è stato colpito da COVID-19. Il web invece racconta quotidianamente storie di persone ammalate, uomini e donne (non solo anziani) che si trovano in terapia intensiva nella speranza di guarire o, peggio ancora, che non ce l’hanno fatta. Ogni volta che ne leggo una penso ai loro parenti, ai loro amici: che voglia avranno di sentirsi dire “andrà tutto bene” in una situazione simile? L’Eco di Bergamo nei giorni scorsi aveva dieci − sì, dieci − pagine di necrologi, ne ha parlato persino il Washington Post.

Sono dell’idea che sia più efficace rimanere lucidi e affrontare l’emergenza per quello che è: un’emergenza. Non è una situazione ordinaria, non sarà così per sempre. Dobbiamo accettare questa realtà, cercare di vivere al meglio che possiamo nel rispetto delle regole e sperare che le conseguenze per l’Italia non siano estremamente devastanti. Poi, un giorno, andrà tutto bene di nuovo, certo. Per il momento rimaniamo uniti e realisti.

Bologna città protetta

Per contenere la diffusione del nuovo coronavirus, il Governo ha disposto misure molto restrittive, che impongono di ridurre al minimo gli spostamenti e di rimanere il più possibile a casa.

Come è cambiata Bologna, adesso che è in zona protetta? Ho fatto un giro per le strade del centro (con le dovute precauzioni sanitarie) per documentare la situazione. Qualche turista, poche macchine, nessuno studente: la città sembra avere capito l’importanza di queste regole. L’atmosfera che percepisco è strana. C’è parecchio silenzio, i principali luoghi di incontro sono quasi deserti. Bologna di solito è una città vivace e rumorosa, vederla così fa uno strano effetto.

Ciò che ho visto è raccolto nel video che trovate qui sotto. Ho preferito non aggiungere musica di sottofondo, ascoltate il rumore di una città in zona protetta. Buona visione, e un piccolo appello: state a casa, rispettate le regole, uscite solo se è davvero necessario. Non sarà per sempre, presto torneremo alla normalità.