Nell’ultima settimana stiamo assistendo ad un notevole – e ormai esponenziale – aumento del numero di nuovi contagi giornalieri di coronavirus. Mentre scrivo è stato diffuso il bollettino di oggi: abbiamo superato i 10.000 casi in un giorno, sebbene i morti siano in calo rispetto a ieri. Siamo chiaramente di fronte alla seconda ondata, anche se negli ultimi mesi non sono mancati gli esperti che ci hanno raccontato che non ci sarebbe stata.
Lo scenario davanti a cui ci troviamo è piuttosto diverso rispetto a quello di fine febbraio. Sette mesi fa nessuno aveva informazioni riguardo al coronavirus, alla sua letalità e alla facilità con cui si diffonde tra le persone. Il Governo e le Regioni hanno dovuto gestire e coordinare un’emergenza sanitaria fuori controllo con misure drastiche, straordinarie come la situazione che stavamo vivendo. Il “modello italiano” è stato apprezzato dai commentatori esteri, per la capacità del nostro Paese di reagire alla pandemia.
Dopo il lockdown è arrivata l’estate e nella narrazione pubblica sembrava che il peggio fosse passato, che il coronavirus non costituisse più una minaccia così grande e che, tutto sommato, presto tutti saremo ritornati alle nostre vite di prima. È chiaro che le cose stanno diversamente.
Rispetto a sette mesi fa trovo che ci siano ancora più incertezza e confusione. Non abbiamo più le attenuanti dell’imprevedibilità: a febbraio nessuno sapeva niente, mentre oggi avremmo potuto mettere in atto una strategia studiata durante l’estate, quando la situazione era più tranquilla. Invece, a leggere i giornali, sembra di essere tornati indietro nel tempo. II Governo reagisce all’aumento dei contagi con un nuovo DPCM che impone alcune restrizioni, nel frattempo le Regioni cominciano a prendere decisioni autonome per contenere ulteriormente il virus. Scene già viste: gli effetti delle azioni intraprese si vedranno solo tra due settimane – il tempo di incubazione del coronavirus – ma nel frattempo in numeri saliranno ancora. Allora la soluzione quale sarà? Un altro lockdown?
Al di là della provocazione, i punti che vorrei sollevare sono due.
Il primo riguarda la costante incapacità di pianificare il futuro a lungo termine da parte di chi ha il compito di decidere. Questo è un problema storico dell’Italia e della nostra classe dirigente, ma durante i mesi di quarantena abbiamo speso parole, tweet e live su Instagram a raccontare che ne saremo usciti migliori, che questa era la grande occasione per rilanciare il Paese e non potevamo perderla. Per esempio. L’accesso ai fondi per il rilancio stanziati dall’Unione Europea è vincolato alla presentazione di un programma dettagliato di quali interventi verranno fatti e di quale idea di Italia abbia in mente chi avrà il potere di spenderli, quei soldi. Come ha scritto Claudio Cerasa sul Foglio:
Bisognerebbe anche essere consapevoli del fatto che un governo che intende prepararsi alla sfida della vita, così l’ha definita il presidente del Consiglio, con un atteggiamento diverso rispetto a quello di chi compila una lista della spesa non può permettersi di offrire l’impressione che ha offerto ieri: quella di voler privilegiare, rispetto all’utilizzo dei fondi europei, più la logica della distribuzione del presente, un po’ a me un po’ a te, che la logica della visione del futuro.
Lo stesso ragionamento si può applicare alla gestione della pandemia. Dopo un’estate intera passata a discutere di banchi con le rotelle, blocco dei licenziamenti e cassa integrazione, l’impressione che ho è che ci ha il potere di decidere si sia limitato a sperare che i contagi sarebbero calati, senza prevedere un effettivo piano di azione nel caso di una nuova crescita della curva. Così, oggi, ci troviamo ancora ad inseguire un virus che ha sempre due settimane di vantaggio rispetto a noi. Ma senza tutte le attenuanti di questo inverno.
Il secondo punto riguarda la narrazione che abbiamo fatto di tutta questa storia. Sono dell’idea che abbassare l’allerta per tutta l’estate non abbia fatto bene. Il coronavirus è stato al centro delle notizie solo quando abbiamo parlato della movida (bisogna sempre cercare un colpevole) oppure nel caso di contagiati famosi, come Flavio Briatore. Paolo Giordano scriveva sul Corriere, qualche giorno fa, che «questa epidemia la si fronteggia innanzitutto con la percezione che i cittadini ne hanno». Sono d’accordo: se in tutti questi mesi avessimo continuato ad informare le persone su quanto sia importante essere prudenti, forse adesso sarebbe più semplice spiegare il perché di questo nuovo aumento dei casi. Forse, se la pandemia fosse stata vissuta come qualcosa di non superato, ma di ancora in corso, oggi sentiremmo dire meno frasi come «Eh ma non siamo mica come a marzo!» (volete davvero rivedere i camion dell’Esercito che portano via i morti?).
Attenzione, non voglio difendere un atteggiamento eccessivamente allarmista, il tema non è questo. Ciò su cui voglio concentrarmi è il fatto che anche i media hanno una responsabilità se oggi la situazione – almeno per come la percepisco io – sembra di nuovo ad un passo dall’essere fuori controllo. Se vogliamo veramente uscirne migliori, dobbiamo cominciare a pianificare a lungo termine, a pre-vedere. Le emergenze sono tali perché iniziano e finiscono. In Italia, invece, è tutto urgente e dobbiamo sempre inseguire.