Precario a chi?

La notizia dell’isolamento del nuovo coronavirus da parte del laboratorio di Virologia dell’Istituto Nazionale Malattie Infettive “Lazzaro Spallanzani” ha riaperto il dibattito sui lavoratori precari in Italia. Il gruppo di lavoro che ha ottenuto questo risultato è composto da tre dottoresse: Maria Rosaria Capobianchi (67 anni, capo del laboratorio), Concetta Castilletti (57 anni, responsabile dell’Unità virus emergenti) e Francesca Colavita (31 anni, ricercatrice).

La condizione professionale di Colavita ha scatenato i titolisti di diversi giornali, che l’hanno subito definita “precaria“. In realtà la ricercatrice lavora già da quattro anni allo Spallanzani, ha un contratto fino a novembre 2021 e per quel posto di lavoro a Roma ha rinunciato ad un ruolo a tempo indeterminato nella sua città natale, Campobasso.

In Italia l’idea del posto fisso è ancora una suggestione molto forte per tantissime persone, non solo adulte, che vedono in un contratto a tempo indeterminato lo strumento per potere, finalmente, programmare a lungo termine la propria vita, grazie alla maggiore facilità di accesso al credito che questo tipo di contratto garantisce. Un fenomeno che spiega l’enfasi riservata alla situazione di Colavita, descritta come una professionista che rischia di perdere il proprio lavoro da un giorno all’altro. Personalmente lo trovo un errore. Un contratto a termine non si può definire “precario”, soprattutto se il termine è lontano anni. Un ricercatore che svolge la propria professione dopo avere vinto una borsa di studio non è affatto precario, perché conosce benissimo i dettagli e le scadenze del proprio contratto. Senza parlare delle tutele incluse in ogni contratto di lavoro subordinato: ferie, malattia, TFR, tredicesima. Tutti benefici extra, che è giusto (e obbligatorio) garantire, ma che spesso vengono dati per scontati e privati del loro valore, anche economico.

I rapporto di lavoro che non offrono sicurezze esistono, ma sono altri. Se penso alla mia esperienza professionale, fino ad oggi ho lavorato quasi esclusivamente con contratti di stage (500€ al mese, niente contributi e nessuna delle garanzie elencate sopra) oppure come lavoratore autonomo (ho la partita IVA dal 2014). In questi casi sì che c’è da sentirsi precario: riponi grandi speranze nell’esperienza professionale che stai svolgendo e ti impegni per convincere l’azienda ad assumerti al termine del periodo di tirocinio, ma i datori di lavoro sanno già che questo, con ogni probabilità, non accadrà. Alle imprese, dal punto di vista fiscale, conviene di più cambiare stagista ogni sei mesi piuttosto che confermarne uno. Una scelta che ha ricadute negative sull’ambiente di lavoro, perché mette i capi nella condizione di dovere formare in continuazione una risorsa diversa, che una volta inserita nelle dinamiche dell’ufficio è già in scadenza di contratto.

Anche i rapporti di lavoro regolati dalla partita IVA sono tutt’altro che stabili. Spesso sono le aziende stesse a richiedere ai candidati di aprirla, per evitare i costi di assunzione. È altrettanto frequente il caso di professionisti che emettono fatture ad un solo cliente nel corso dell’anno, un segnale evidente che c’è qualcosa di sbagliato nel loro trattamento professionale. In tutti questi casi i giornali dovrebbero parlare di precariato, approfondire, informare e chiedere ai decisori politici di intervenire.

Si potrebbe poi discutere di qual è la definizione che vogliamo dare alla parola lavoro nel 2020, in piena rivoluzione digitale e con una società sempre più globale e connessa. Ha ancora senso rimanere ancorati al concetto di posto fisso e di contratto a tempo indeterminato?

Un mio caro amico, che lavora come insegnante di sostegno in una scuola dell’infanzia, percepisce circa 1500€ al mese, per un impegno di 25 ore settimanali. Ha un incarico che dura per l’intero anno scolastico (con concrete possibilità di rinnovo) e gode di tutte le tutele sociali esistenti. Per molti media, è un precario anche lui.

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La retorica scivolosa

Lunedì scorso è stato il Giorno della Memoria. Complice l’esito delle elezioni regionali in Emilia-Romagna e in Calabria, che ha monopolizzato l’attenzione dei media, ho avuto l’impressione che se ne sia parlato meno del solito. È da parecchi anni che la ricorrenza del 27 gennaio pare essersi un po’ svuotata del proprio significato: i giornali le dedicano l’articolo del giorno nelle loro pagine culturali e pubblicano la foto dell’ingresso del campo di concentramento di Auschwitz sulle proprie home page, i talk show televisivi difficilmente decidono di dare spazio a questo tema e i personaggi pubblici, ad eccezione del Presidente della Repubblica che ha tenuto un bellissimo discorso, rilasciano poche dichiarazioni.

In realtà, a ben guardare, il Giorno della Memoria viene celebrato in molti contesti, dalle scuole alle librerie alle associazioni culturali. Quella che si è indebolita, secondo me, è la consapevolezza del perché sia così importante ricordare l’Olocausto. Pensavo, quindi, di parlare di questo. Ma mentre mettevo in ordine le idee prima di scriverle, mi sono reso conto di quanto sia difficile ricordare la Shoah senza scivolare in considerazioni banali, in commenti carichi di retorica o in riflessioni già sentite. “La pagina più nera della nostra storia”, “un orrore che non deve ripetersi”: spesso non si va più in là di così.

In passato ho avuto due volte l’occasione di ascoltare dal vivo le parole di un sopravvissuto ai campi di sterminio. La prima è stata alle elementari, venne a scuola un uomo di nome Attilio, uno dei tanti prigionieri politici con il triangolo rosso cucito sulla casacca, ci raccontò la sua storia e rispose alle nostre domande. La seconda, invece, l’anno scorso: ho avuto il privilegio di ascoltare dal vivo, al Teatro alla Scala di Milano, le parole di Liliana Segre, unica sopravvissuta ad Auschwitz della propria famiglia e ora senatrice a vita. Un’esperienza fortissima e impossibile da dimenticare. Più di recente ho letto la storia di Savina Rupel, raccontata su Twitter da Johannes Bückler (che vi consiglio di seguire).

Il sentimento antisemita è ancora presente in alcune pieghe della nostra società, e sempre più spesso leggiamo notizie che lo dimostrano. Il vero motivo per cui serve ancora il Giorno della Memoria, secondo me, sta tutto qui. Per ricordarci che alle leggi razziali e alla discriminazione di massa ci si arriva poco per volta, con il silenzio e con l’indifferenza. Meditate che questo è stato, scriveva Primo Levi in una delle sue opere più citate. Leggete le testimonianze di chi questo lo ha vissuto, aggiungo io. Andate ad ascoltarle dal vivo, se potete. Perché un giorno non molto lontano queste persone non ci saranno più, e toccherà a noi tenere vive le loro storie. Facendo attenzione a non scivolare.

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Per iniziare

Quando ho creato il primo sito web andavo alle medie. Insieme ad alcuni amici mi divertivo a registrare video stupidi e a pubblicarli su Internet. Io ero quello bravo con il computer: avevo aperto un canale YouTube (ce l’ho ancora, ma quei video li ho nascosti) in cui caricare i nostri filmati, ma all’epoca la piattaforma offriva poche possibilità di personalizzazione, quindi decisi di realizzare un sito per raccogliere tutte le clip e dividerle in categorie. Era una pagina web banale, ma ero molto soddisfatto del risultato.

Da allora sono passati più di dieci anni e in varie occasioni ho pensato di aprire un blog, in cui commentare le notizie del giorno e condividere le mie idee. Ho sempre rinunciato − fino ad oggi − perché ritenevo che, alla fine, a nessuno interessasse leggere le mie opinioni. Il motivo che mi ha spinto a creare mgf.life è piuttosto intimo: sento la necessità di avere un luogo in cui concretizzare i miei pensieri. Utilizzerò queste pagine per esprimere il mio punto di vista su fatti di politica e attualità, ma anche per condividere riflessioni personali, legate alla mia vita quotidiana.

Talvolta pubblicherò anche post legati alle cose che faccio per lavoro; non mi piace molto auto promuovermi, però mi hanno detto che serve per farsi conoscere.

Se voleste seguirmi più da vicino, trovate i miei profili social qui.
Bene, benvenuti. Cercherò di aggiornare questo spazio con regolarità.